Chi non ha a che fare con il fisco italiano secondo me fa fatica a capire quello di cui stiamo parlando. Quando lavoravo come dipendente facevo parte anche io del gregge di quelli che si incazzavano quando venivano pubblicate le statistiche dei gioiellieri che guadagnano 1000 euro all’anno, pensavo che le tasse sono una cosa giusta e che avrei voluto pagarne anche io tantissime, sicuro che le tasse si pagano solo se si guadagna, in proporzione al guadagno.
Quanto ero ingenuo, quanto non sapevo. Ignoravo il fatto che professionisti e aziende possono avere da pagare tasse anche quando sono in perdita, ignoravo l’abominio degli studi di settore, le tasse fisse, che si pagano indipendentemente dal guadagno ma soprattutto non avevo idea dei costi del fisco per professionisti e imprese, in termini di tempo e di incertezza.
Quando sono diventato imprenditore ho iniziato a fare un ripasso di congiuntivi e condizionali: parlando con il commercialista sentivo spesso usare l’espressione “dovrebbe“. Dovrebbe essere giusto, dovrebbe essere così.
Come dovrebbe, ho pensato, cambiamo subito commercialista. Poi ho capito che il problema non è il professionista, è proprio il fisco italiano a essere incomprensibile nella sua giungla di norme, normette, decreti attuativi, codici e codicilli. Questo fa perdere una marea di tempo e crea una incredibile incertezza, ad esempio il corriere della sera qui segnala 629 norme negli ultimi sei anni, più di 600 nuovi adempimenti che complicano la vita degli imprenditori, alla faccia della semplificazione.
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